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Didascalie

in alto: l'imperatore d'Etiopia Menelik II.
Al centro: stralcio della prima pagina del quotidiano "La Tribuna" con la ricostruzione grafica dello scontro di Amba Alagi.
in basso: il maggiore Giuseppe Galliano riuscì a resistere nel forte di Macallé assediato dalle armate abissine dell'imperatore d'Etiopia Menelik II.

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Prima di Adua - Amba Alagi e Macallé

Le premesse

L'imperatore Menelik II Menelik II, imperatore d'Etiopia, non ha mai accettato le clausole del trattato di Uccialli che lo sottopone ad un odiato protettorato da parte degli italiani. Allo stesso modo non accetta la presenza delle “facce d'orzo” nei territori settentrionali del suo impero. E' giunto il momento di cambiare lo stato delle cose e di passare all'azione.
Menelik lascia la sua capitale, Addis Abeba l'11 ottobre del 1895 diretto verso nord. La decisione era stata presa in primavera dopo aver consultato tutti i dignitari e i ras a lui fedeli.
Vuole riconquistare il Tigré e per questo ha fatto suonare il negarìt.
Una colonna di almeno 30.000 uomini, al comando dei ras Maconnen, Mikael, Mangascià, Alula viene inviata in avanguardia con il compito di prendere contatto con le forze italiane e, nel caso che queste fossero poco numerose, attaccarle.

Il grosso dell'esercito abissino, nel frattempo, si sarebbe attardato a Uorrà Ilù e a Dessié in attesa di ricongiungersi con altre forze abissine.
Ras Maconnen e gli altri sono intanto giunti a ridosso delle postazioni avanzate degli italiani nella regione del Tigré. Le sue intenzioni sono di evitare uno scontro diretto con le truppe del generale Baratieri e, a tal proposito, cerca di avviare una trattativa con il governatore attraverso il suo amico personale Pietro Felter. Il dignitario etiopico, cosciente della forza militare che ha alle spalle, vuole essere il tramite, per l'imperatore, nel proporre al governo di Roma, una revisione (o meglio, l'abolizione) del trattato di Uccialli che, ricordiamo, con l'articolo 17 del testo italiano, assoggetta l'Abissinia al protettorato da parte dell'Italia. In aggiunta a questo propone una ridefinizione della sfera di influenza territoriale degli italiani nell'Etiopia settentrionale.
La trattativa fallisce perché a Roma queste proposte non vennero mai prese in seria considerazione, ma si decide di instaurare ugualmente una parvenza di trattativa strumentalmente utile per guadagnare tempo e permettere il dispiegamento dell'apparato militare italo-eritreo.

La sconfitta dell'Amba Alagi

La battaglia dell'Amba Alagi Baratieri non approfitta del tempo a disposizione e, sottovalutando le forze in campo, si limita far controllare la regione dal generale Arimondi acquartierato ad Adigrat con almeno 6500 uomini. Per cercare di avere un quadro preciso delle forze nemiche e dei loro movimenti Baratieri ordina, inoltre, al generale di inviare un “distaccamento volante” all'Amba Alagi con compiti di “osservazione avanzata”.
Arimondi, travisando gli ordini del Governatore e di sua iniziativa, invia effettivamente il capitano Salvatore Persico in missione di osservazione seguito, però, dal maggiore Toselli con tre compagnie del 4° battaglione indigeni che si spinge fino a Belagò (un abitato posto circa 30 km a sud dell'Amba Alagi) da dove è in grado di constatare la reale forza (e vicinanza alle postazioni italiane) degli uomini di Menelik.
Dietro istruzioni di Arimondi, il maggiore Toselli ripiega sul valico di Alagi dove si appresta a tenere la posizione a tutti i costi per permettere ad una colonna di rinforzo di venirgli in soccorso. Gli attesi rinforzi non giungeranno mai: Baratieri ordina all'Arimondi di non muoversi in aiuto, di richiamare la compagnia Toselli e farla ulteriormente ripiegare, lentamente, in modo da contrastare gli abissini. L'ordine del comandante delle truppe coloniali non giunse mai all'Amba Alagi perché Arimondi non lo trasmise a Toselli che, ignaro di tutto, si vide costretto a tenere la posizione.
Sul campo, il maggiore ha, nel frattempo, organizzato la difesa del valico di Alagi disponendo due sostanziosi distaccamenti (le bande dell'endà Mehoni e di ras Sebbàt) presso il passo Falagà posto a Est dell'Amba e a ridosso del passo di Togorà (le bande di scec Tàhla e Valpolicelli) ubicato a Nord-ovest del massiccio in modo da prevenire i possibili aggiramenti da parte del nemico e tenendo il grosso della forza nei pressi dell'Amba Alagi (tra l'altro, le compagnie Persico e Canovetti) per bloccare il passaggio principale. L'attacco da parte delle avanguardie scioane avviene all'alba del 7 dicembre allorquando il fitaurari Gabeiehù investe con 200 armati il centro dello schieramento di Toselli.

La battaglia si accende all'improvviso: ras Maconnen si vede costretto a correre in aiuto del fitaurari mentre le altre colonne abissine si riversano, con migliaia di uomini, sulle ali dello schieramento italiano costringendoli, dopo una tenace resistenza, a ripiegare verso il centro.
I combattimenti proseguono violenti fino alle ore 12,40 quando il maggiore Toselli, per evitare di essere accerchiato, ordina la ritirata verso il colle Togorà. Nello scontro (e nella ritirata) rimangono uccisi una quarantina di militari italiani (compreso il maggiore Toselli) e circa 1500 militari eritrei.
Mentre in Italia il presidente del consiglio Francesco Crispi si vide costretto a ribattere agli attacchi dell'opposizione, che non vuole un impegno offensivo in Africa, cercando di addossare, neppure tanto velatamente, la responsabilità della sconfitta al generale Baratieri, dalla colonia il governatore ingaggia un difficile scambio di missive con il governo di Roma e con Crispi in persona. Lo statista siciliano, pur non avendo il totale controllo sui fatti d'Africa (per sua stessa ammissione), cercò di suggerire (se non proprio di imporre) al governatore l'idea di passare all'azione e di ottenere quei risultati che ristabilissero l'onore dell'Italia e della Corona.
Nel Tigré, intanto, le truppe coloniali si stanno concentrando ad Adigrat pur mantenendo l'avamposto di Macallé dove, sull'altura di Endà Iesus posta a ridosso dell'abitato, il maggiore Toselli aveva, già agli inizi di ottobre, dato inizio alla costruzione di un recinto fortificato considerato, con ottimismo, un forte in grado di resistere alla massa d'urto dell'esercito abissino.

L'assedio del forte di Macallé

Giuseppe Galliano Quando l'8 dicembre il maggiore Giuseppe Galliano si insedia nel forte con il suo battaglione di 1300 uomini, si rende immediatamente conto che la struttura difensiva ha due grossi punti deboli: il più preoccupante è sicuramente la mancanza di una sicura fonte di approvvigionamento d'acqua: le sorgenti si trovano al di fuori delle mura e sono difficili da difendere. Il secondo fattore che preoccupa il maggiore è dato dal fatto che il forte è piuttosto esposto agli eventuali tiri di artiglieria che sarebbero potuti provenire dalle alture circostanti.
L'attacco al forte di Macallé avviene a partire dalle prime ore del 7 gennaio e prosegue, nei giorni seguenti, ad ondate successive di fanteria appoggiate da un nutrito fuoco di artiglieria.
Fin da subito gli occupanti perdono, come previsto da Galliano, la possibilità di accedere alle sorgenti, prontamente conquistate dai guerrieri di ras Maconnen. L'assedio di Macallé continua fino al giorno 19 gennaio, giorno in cui il maggiore apprende che, grazie ad una sofferta trattativa tra l'inviato di Baratieri, Pietro Felter, e Menelik, soddisfatto dei risultati militari raggiunti, gli è concesso di lasciare il forte con l'onore delle armi e di ritirarsi, con tutto il battaglione verso Adigrat.
L'impatto emotivo sugli assediati lascia il segno: Galliano e i suoi uomini, in un estremo gesto di resistenza erano pronti a farsi saltare in aria insieme al forte stesso pur di non darla vinta agli abissini ma, a questo punto sono costretti a cedere, con sofferenza personale, le postazioni che avevano difeso così strenuamente.
Nel giro di un paio di mesi la situazione politica e militare nel Corno d'Africa è cambiata: in questo breve arco di tempo è apparso chiaro che la forza dell'offensiva italiana nel Tigré si è conclusa e che, l'imperatore d'Etiopia è riuscito in breve tempo a riunire un gran numero di guerrieri, armati di moderni fucili, a raggiungere con il grosso delle truppe la regione del Tigré ed a ottenere sul campo due importanti vittorie che hanno galvanizzato la sua gente e disorientato gli italiani.
A questo punto la strada per Adua è aperta e il generale Baratieri non sembra, o non vuole, comprendere che la situazione si è fatta veramente critica: gli abissini si avvicinano sempre di più, in massa, alla colonia Eritrea.

Bibliografia

Baratieri O., "Memorie d'Africa (1892-1896)", Torino, F.lli Bocca Ed, 1898.

Del Boca A., “Gli italiani in Africa orientale. I. Dall'Unità alla marcia su Roma", Oscar Storia, Mondadori, 1998.

Pollera A., "La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi dove fu combattuta", Firenze, Carpigiani e Zipoli, 1928.

Quirico D., “Adua. La battaglia che cambiò la storia d'Italia", Oscar Storia, Mondadori, 2005.

Per approfondire

Telegramma del ten. Bodrero sui fatti dell'Amba Alagi. (Consulta...) Relazione del tenente Partini sull'assedio di Macallé. (Consulta...)

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