Il Mediterraneo, la nuova frontiera
La sconfitta militare di Adua e il forzato disimpegno in Africa orientale ebbe gravi conseguenze sulla società
italiana del tempo insinuando nella popolazione e nelle elites del paese forti dubbi sulle reali capacità
organizzative e militari della nazione e della sua classe dirigente.
Questa profonda mancanza di fiducia, tuttavia, non impedì all’Italia di stabilizzare, negli anni seguenti, i
propri possedimenti africani (la colonia eritrea e la Somalia italiana) e di partecipare a sortite militari
in estremo oriente con l’invio, nell’agosto del 1900, di un corpo di spedizione militare in Cina per sedare
la rivolta dei Boxer (l’intervento in aiuto del Celeste Impero valse all’Italia, nel 1901, una concessione
territoriale di soli 46 ettari nella città di Tientsin).
Nel Mediterraneo, lo stato sabaudo era tornato a guardare con un certo interesse gli unici lembi di costa
nord africana che garantivano una certa libertà d’azione in campo coloniale: si trattava dei territori della
Cirenaica e della Tripolitania che, pur essendo ancora formalmente assoggettati all’impero turco, si riteneva
(erroneamente, ma questo lo vedremo in seguito) potessero essere annessi senza grossi problemi politici e
militari.
In questo scenario giocò un ruolo fondamentale la propaganda di stampo nazionalistico fortemente sostenuta da
importanti settori finanziari (in primo luogo la Banca di Roma che aveva in Libia ampi interessi economici e
la Banca Commerciale Italiana), industriali e religiosi (diversi esponenti cattolici erano favorevoli a
crociate contro le popolazioni arabe della futura colonia). In questo ruolo si distinsero alcuni giornali italiani,
in primo luogo la Stampa di Torino seguita dal Corriere della Sera di Milano, dalla Tribuna e dal Messaggero di
Roma che dipinsero la Libia non per quello che in realtà era, ovvero “uno scatolone di sabbia” come ebbe a dire
Gaetano Salvemini, bensì come un eldorado o, più realisticamente, una “terra promessa” che attendeva solamente
l’opera colonizzatrice degli italiani che, con il loro ingegno e, ripercorrendo le orme degli avi, avrebbero
trasformato il deserto in un giardino.
Il tema dei colonizzatori costituì, inoltre, un altro argomento che divenne molto popolare nella società italiana
tanto che si iniziò a pensare al paese nordafricano come ad una perfetta “valvola di sfogo” per le migliaia
di emigranti del meridione d’Italia che invece di prendere la via dell’oceano avrebbero potuto così seguire
percorsi mediterranei.
In questo contesto, Giovanni Giolitti (il Presidente del consiglio in carica) aveva la chiara intenzione di
sfruttare l’occasione per intervenire in Tripolitania e in Cirenaica. Il suo proposito era di sfruttare a
proprio vantaggio l’opportunità di una guerra coloniale per rinforzare il proprio ministero e acquistare
consensi elettorali in vista delle ormai prossime elezioni generali.
L’occasione propizia si presentò con il sopraggiungere della crisi diplomatica tra Germania e Francia sulla
questione del Marocco (entrambe le potenze avevano mire coloniali sul paese nordafricano). Approfittando del
momento di “distrazione” delle diplomazie europee impegnate a seguire la vicenda, l’Italia impose alla Turchia
un ultimatum dove si pretendeva, tra l’altro, che la “Sublime Porta” riconoscesse il diritto italiano di
occupare militarmente la Tripolitania e la Cirenaica.
L'ultimatum italiano
Nonostante che da Costantinopoli venissero segnali accomodanti, si decise di non attendere la risposta
ufficiale turca (Giolitti temeva l’intromissione degli altri stati europei nelle trattative in corso) e si
diede immediatamente il via alle operazioni militari (il rifiuto turco alle imposizioni italiane arrivò
addirittura due ore dopo l’inizio delle ostilità!). Le prime operazioni di sbarco in terra libica si ebbero
già ai primi di ottobre del 1911 (4 ottobre a Tobruk; 5 ottobre a Tripoli) con l’occupazione di limitate aree
costiere.
Il corpo di spedizione italiano era composto, inizialmente, da 35.000 uomini al comando del generale
Caneva. L’esercito aveva avuto un preavviso di pochi giorni e non era stato in grado di preparare in modo
soddisfacente la missione: molti dei soldati impiegati erano privi di esperienza, non si avevano a
disposizione informazioni dettagliate sul territorio da occupare e non si conoscevano bene le forze in campo
a disposizione dell’avversario (che comprendevano circa 8.000 uomini dell’esercito regolare a cui si
affiancavano diversi reparti irregolari composti da combattenti arabi).
La sproporzione di forze non consentì, tuttavia, all’Italia di risolvere in breve tempo (come aveva
preconizzato, errando, la propaganda nazionalistica) la situazione militare in suo favore tanto che fu
costretta ad aumentare celermente il proprio impegno militare fino a schierare sul campo circa 100.000 uomini.
Il 23 ottobre i turchi, appoggiati dalle popolazioni locali (che “preferivano restare sottomessi ad occupanti
della propria religione piuttosto che ad occupanti infedeli”) sferrarono una controffensiva contro la testa
di ponte di Tripoli.
Dopo aspri combattimenti, passati alla storia come la battaglia di Sciara Sciat, gli
italiani riuscirono a tenere le loro posizioni senza grossi cedimenti territoriali. Lo scontro, tuttavia,
mise in luce, senza tema di smentite, che gli arabi non avrebbero accolto i militari italiani come eroici
liberatori. Questa amara sorpresa ebbe conseguenze nefaste perché indusse lo Stato maggiore ad attuare una
politica di repressione indiscriminata nei confronti della popolazione libica. Il 5 novembre a Roma, con
decisione improvvisa e unilaterale, viene promulgato un decreto con il quale si sancì l’annessione della
Libia.
La decisione governativa fu presa quando ancora la situazione militare non era definita e stabilizzata
ma l’atto serviva a porre la Turchia di fronte allo stato di fatto e a costringerla a prendere decisioni
favorevoli all’Italia.
Durante il periodo invernale le operazioni militari subirono un vistoso rallentamento ma già ai primi di
maggio da parte italiana si decise di dare un’accelerazione alla guerra aprendo un secondo fronte in oriente
visto che in terra africana non si riusciva ad ottenere quella vittoria risolutiva che avrebbe potuto porre
fine al conflitto.
L'occupazione del Dodecaneso
Il 5 maggio le truppe italiane sbarcarono a Rodi, la principale isola dell’arcipelago delle Sporadi, e
nell’arco di pochi giorni riuscirono ad ottenere il controllo dell’intero Dodecaneso.
Il 18 luglio del 1912 una formazione della Regia Marina composta da cinque torpediniere tentò (e riuscì) a
forzare lo stretto dei Dardanelli dimostrando la vulnerabilità delle difese turche direttamente nel cuore
dell’Impero.
Nel corso dello stesso mese iniziarono a Losanna le trattative di pace che proseguirono, con alterne vicende
da parte turca, fino ai primi di ottobre.
Il 12 ottobre del 1912 si procedette alla firma del trattato di pace
tra i due contendenti. Il trattato consentì all’Italia di ottenere la sovranità sulla Tripolitania e la
Cirenaica oltre alla possibilità di mantenere la propria presenza militare nel Dodecaneso. L’Impero ottomano,
di contro, riuscì a vedere risarcita la propria perdita territoriale tramite una clausola in cui si stabiliva
che l’Italia avrebbe provveduto ad erogare ingenti finanziamenti al debito pubblico di Istanbul oltre alla
possibilità di mantenere la rappresentanza religiosa sulle popolazioni libiche da parte delle autorità di
Costantinopoli.
Bibliografia
Del Boca A., “Gli italiani in Libia - Vol. 1 - Tripoli bel suol d'amore”, Laterza, Bari, 1986.
Gli italiani
in Tunisia e la questione di Tripoli.
(Consulta...)
Testo dell'ultimatum italiano alla Sublime Porta.
(Consulta...)
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