Il prologo
Dopo la resa del battaglione Galliano asserragliato nel forte di Macallé, l'imperatore Menelik decide di “scortare”
il maggiore e i suoi uomini sulla strada del ripiegamento verso le postazioni italiane di Edagà Hamùs. Lasciati gli
italiani lungo il tragitto, si dirige, con gran parte delle proprie truppe, verso la regione di Adua dove prende
posizione nella piana di Ghendepta, proprio a ridosso delle linee italiane e al loro campo di Saurià. In molti pensano
che Menelik abbia intenzione di affrontare le truppe di Baratieri in uno scontro imminente, tuttavia, di li a poco
(il 20 febbraio) l'imperatore d'Etiopia decide di ripiegare verso l'abitato di Adua e di accamparsi in posizione
più favorevole in vista di una possibile invasione della colonia Eritrea.
A questo punto però, per comprendere la futura evoluzione degli avvenimenti che porteranno alle improvvide
decisioni del comando italiano e alla conseguente disfatta di Adua bisogna fare un salto a Roma e seguire le
azioni politiche del governo e lo stato emotivo di alcuni suoi componenti di spicco dettate dai recenti rovesci
militari avvenuti oltremare.
Il 21 febbraio il ministro della guerra Stanislao Mocenni propone al Consiglio dei ministri, l'invio di altre
truppe in Africa (12 battaglioni e 4 batterie di artiglieria) e la sostituzione del governatore Baratieri che
non sembra più in grado di reggere le sorti del governo in colonia con il generale Baldissera. Il 23 febbraio
il governatore designato si imbarca a Brindisi per Massaua sotto il falso nome di commendatore Palamidessi.
L'escamotage viene impiegato per evitare che Barattieri venga a conoscenza, in anticipo rispetto ai tempi
previsti dal governo, della propria sostituzione. In molti, a Roma, sono convinti che a causa di questo
provvedimento possa prendere decisioni affrettate o dettate dal risentimento.
Il giorno seguente, 24 febbraio, Mocenni comunica per telegramma a Baratieri che sono in partenza i rinforzi
richiesti ma non fa cenno della sostituzione e, in separata sede, intima al vice governatore Lamberti che si
trova a Massaua di mettere a tacere eventuali voci in tal senso che possano essere intanto giunte dall'Italia.
In questa atmosfera di segretezza anche il Presidente del consiglio Crispi farà sentire la sua voce per mezzo
del telegrafo: il 25, il politico siciliano invia a Baratieri il famoso e controverso telegramma della “Tisi
militare” che arreca alle già precarie condizioni psicofisiche del governatore il colpo finale.
Il Baratieri che affronta, il giorno 28 febbraio a Saurià, il consiglio di guerra con i suoi generali, è un
uomo distrutto e non in grado di valutare con sufficiente freddezza la situazione in campo (alcuni studiosi
sono convinti che il governatore, contrariamente alle aspettative del governo, fosse già venuto a conoscenza
della sua sostituzione grazie ad informatori personali e questo abbia pesato sulla sua decisione di dare
battaglia all'esercito di Menelik).
Il giorno seguente si tiene un nuovo consiglio di guerra. Quello definitivo. Baratieri consegna ai generali
convenuti, Albertone, Arimondi, Dabormida e Ellena, l'ordine operazioni numero 87 dove si dice che le truppe
italo-eritree si metteranno in marcia, suddivise in tre colonne distinte comandate dai generali Albertone,
Arimondi e Dabormida dirette verso le postazioni abissine. Le brigate dovranno procedere in sincrono su
percorsi paralleli. Albertone sulla sinistra dello schieramento italiano dovrà occupare il colle Chidane
Meret; Arimondi al centro si posizionerà a ridosso del monte Raio e Dabormida a destra si dirigerà, invece,
verso il colle Rebbi Arieni.
Nelle intenzioni del governatore c'è la volontà di creare un fronte unico
all'altezza del Raio da cui attendere le mosse del nemico. Le tre brigate si metteranno in movimento quella
stessa sera alle ore 21.00 in punto. Subito dopo partirà anche una quarta colonna, condotta dal generale
Ellena, con compiti di riserva e rincalzo. Insieme all'ordine, ai generali viene consegnata anche una mappa
della zona, elaborata dallo Stato Maggiore su cui è tracciata in maniera grossolana (e, soprattutto errata)
la topografia del territorio da attraversare e l'ubicazione dei rilievi da occupare.
Le fasi iniziali della battaglia
Alle ore 3.00 del 1° marzo la colonna indigeni di Albertone, in virtù della sua maggiore agilità su terreno
assicurata dagli ascari, scende nella piana di Ghendepta in anticipo rispetto al resto del corpo di spedizione
italiano e, anche grazie ad una errata lettura della famosa carta topografica, mette in difficoltà la marcia
della colonna Arimondi e della colonna Ellena che sono costrette a fermarsi per far passare la brigata
indigena.
Alle ore 3.30 la colonna Albertone si trova a sud di monte Raio e a ridosso del monte Erarà (il
falso Chidane Meret della mappa). Il generale concede una sosta giusto il tempo per verificare che la mappa
di Baratieri è sbagliata e che il vero l'obiettivo è ancora piuttosto distante. Sollecitato anche dalle guide
locali che conoscono alla perfezione il terreno Albertone da l'ordine di avanzare in direzione del vero Chidane
Meret.
E' in questo preciso momento si decide il destino del corpo di spedizione coloniale: Albertone si è reso conto
che il colle su cui si trovava fosse il vero obiettivo assegnatogli dal comando, ma decide, deliberatamente,
di credere alla mappa sbagliata. Questo gli consente di effettuare una puntata offensiva in grado di provocare
il nemico e costringere Baratieri ad ingaggiare battaglia. Era opinione condivisa dai generali che, anche
ancora una volta, il governatore volesse fare solo un'azione dimostrativa per poi ripiegare sulle postazioni
di partenza senza entrare in contatto con il nemico.
Alle 4.00 Baratieri, che viaggia alla testa della colonna di rincalzo (Colonna Ellena), si rende conto
dell'errore di Albertone ma non prende provvedimenti perché convinto di ritrovarlo già in posizione sul colle
Chidane Meret (ovvero sul monte Erarà).
Alle 5.30 la colonna Dabormida ha raggiunto la sua posizione alle pendici del colle Rebbi Arieni mentre la
colonna Arimondi che, ricordiamo, si era fermata in attesa del passaggio della colonna Albertone, si trova
ancora nella piana di Ghendepta mentre la brigata Ellena la segue in coda.
Alle ore 6.00 la brigata indigeni di Albertone raggiunge le pendici di Adi Becci e del monte Chidane Meret.
Nel frattempo, l'avanguardia della colonna, il battaglione del maggiore Turitto, che, dopo essersi accorto
della repentina avanzata della colonna, avverte il generale Albertone che lo sprona ad andare avanti senza
discutere (“Vada avanti non abbia paura”), si trova nella piana di Adua, tanto che alcuni suoi reparti hanno
già raggiunto la periferia dell'abitato.
Gli abissini messi in allarme attaccano il battaglione Turitto che, dopo un tentativo di resistenza, è
costretto ad indietreggiare e a ricongiungersi con il grosso della colonna posta sulle alture. In breve tempo
anche queste posizioni verranno impegnate duramente dall'attacco delle forze abissine.
Alle ore 6.50 il generale, finalmente decide di avvertire Baratieri con un biglietto per mezzo del quale
chiede rinforzi e “suggerisce” l'avanzata, sulla destra, della brigata Arimondi in modo che possa attaccare le
forze di Menelik alle spalle.
Alle ore 8.30 l'attacco massiccio delle truppe del negus si attenua e poi si arresta perché fermato dalla
resistenza dei battaglioni eritrei e dalla forte azione di contrasto dell'artiglieria italiana.
Dopo attimi di profonda esitazione (nell'attacco alle postazioni italiane viene ucciso il fitaurari Gabeiehù e
un gran numero di guerrieri abissini tanto che Menelik era propenso ad ordinare un ripiegamento dell'esercito
scioano ma l'imperatrice Taitù lo sprona al combattimento e getta nella mischia la guardia personale).
L'attacco alle postazioni italiane riprende con più vigore ma con una diversa strategia: l'imperatore e i suoi
comandanti lanciano la classica manovra avvolgente tanto cara ai comandanti abissini. Una colonna comandata
dal fitaurari Taclé attacca le truppe di Albertone sulla sua destra e prende possesso del monte Monoxeitò
mentre, alla sinistra dello schieramento italiano, una seconda colonna formata dal grosso delle truppe di
Menelik, si incunea alle spalle degli italiani risalendo la valle del torrente Mai Tucul. Nella stessa azione
una terza colonna si spinge più avanti e seguendo il corso del Mai Codò aggirerà il massiccio del monte
Semaita e arriverà, come vedremo in seguito, ad impegnare la parte dello schieramento italiano, presso al
monte Raio.
I combattimenti del monte Chidane Meret proseguono violenti fino alle 10.45-11.00, ovvero, fino a quando gli
abissini non travolgeranno la resistenza italo-eritrea e dilagheranno anch'essi, verso la zona del monte Raio.
Prima che cominciassero gli scontri presso l'Abba Garima, Baratieri e gli altri ufficiali dello stato maggiore
si erano incontrati alle pendici del monte Raio per fare il punto della situazione e prendere le opportune
contromisure necessarie dopo le “scomparsa” della colonna Albertone. Nella riunione si giunge, con una certa
difficoltà di vedute tra i vari convenuti, alla conclusione di riposizionare i reparti in modo da fare fronte
unico tra il monte Erarà, il Raio e le pendici di monte Bellah (ovvero, provare a mettere in pratica
l'originario piano di Baratieri con qualche variazione per quanto riguarda la brigata Dabormida riposizionata
leggermente più in avanti). Il governatore ordina, pertanto, al generale Dabormida di prendere posizione sul
monte Bellah, a ridosso della via per Adua, dove questa si incontra con il tracciato che conduce all'Abba
Garima.
Alle ore 7.00 Dabormida da ordine di avanzare ma, incredibilmente, non riuscendo ad orientarsi nel
dedalo di colli e montagne (ancora a causa della mappa errata fornita dallo Stato Maggiore ?) porta i suoi
uomini ad “impantanarsi” sul fondo del vallone di Mariam Scioaitù.
L'epilogo
Alle ore 9.00 le avanguardie della colonna Dabormida prendono contatto con l'accampamento del ras Maconnen
posto all'ingresso della valle verso Adua. Alle 9.30 la colonna Dabormida viene attaccata sia frontalmente
che dalle alture dalle truppe dei ras Mangascià e Alula che impegnano gli italiani fino a verso le 13.00.
Mentre gli italiani rimangono inchiodati nel vallone impossibilitati a manovrare, sul monte Raio si assiste
all'assalto del grosso dell'esercito di Menelik che travolge le colonne Arimondi ed Ellena.
Verso le 16.00 dopo che l'esercito imperiale ha annientato le resistenze italiane nel centro dello schieramento
messo in atto da Baratieri, la massa dei combattenti etiopici si riverserà (e sono circa 50,000!) nella vallata
di Mariam Scioaitù e, nel giro di un paio di ore, annienterà anche la brigata Dabormida.
Ritornando alle postazioni italiane presso il monte Raio si è visto come queste dovettero, a loro volta,
affrontare gli uomini dell'imperatore nel momento in cui venne a mancare la resistenza della brigata indigena.
Senza più contrasti le avanguardie abissine possono dilagare oltre il colle Adi Becci e il colle Monoxeitò,
mentre sulla destra, come si è visto, il grosso delle truppe aggira il massiccio del monte Semaita e, seguendo
la valle del torrente Mai Codò, raggiunge le pendici del monte Erarà dove si scontra con il battaglione
indigeni comandato dal tenente Galliano (che viene ucciso).
Superate anche le difese del monte Erarà gli abissini trovano la strada spianata per investire il fianco
destro dello schieramento italiano. Baratieri cerca di organizzare una strategia di contrasto chiedendo
rinforzi al generale Ellena e facendo affidamento sul fatto che il generale Dabormida con la sua brigata si
trovasse effettivamente nella posizione assegnata alle pendici del monte Bellah.
La realtà, come abbiamo visto, era completamente diversa: la colonna Ellena non era in grado di garantire una
sufficiente massa d'urto perché assottigliata da continue richieste di reparti di rincalzo, mentre Dabormida
era, oramai, legato al suo destino sul fondo della vallata di Mariam Scioaitù.
Alle 12.00 la battaglia del monte Raio si poteva considerare terminata: i soldati italiani e i reparti
indigeni, sbandati, si ritirano in disordine verso Saurià e Adi Chilté inseguiti dalle bande di ras Alula, e
dalla cavalleria Galla che aveva già raggiunto le retrovie italiane seminando morte e distruzione.
Anche nella sconfitta l'imprevidenza del generale Baratieri si è fatta sentire: il comando italiano non aveva
preparato nessun ordine contenente disposizioni relative ad un eventuale ripiegamento e, pertanto, in quel
momento, ognuno cercò di imboccare le vie di fuga che ritenne praticabili. Va, tuttavia, rimarcata la gravità
di questa mancanza: le compagnie del genio che, tre mesi dopo la disfatta di Adua, furono impegnate nella
pietosa raccolta dei resti, trovarono oltre un migliaio di corpi lungo le vie della ritirata italiana.
Bibliografia
Baratieri O., "Memorie d'Africa (1892-1896)", Torino, F.lli Bocca Ed, 1898.
Del Boca A., “Gli italiani in Africa orientale. I. Dall'Unità alla marcia su Roma", Oscar Storia,
Mondadori, 1998.
Pollera A., "La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi dove fu combattuta", Firenze,
Carpigiani e Zipoli, 1928.
Quirico D., “Adua. La battaglia che cambiò la storia d'Italia", Oscar Storia, Mondadori, 2005.
Telegramma
di Crispi a Baratieri sulla "Tisi militare". (Consulta...)
Mappa del territorio di
Adua dello Stato Maggiore. (Consulta...)
"Telegramma della disfatta"
inviato a Roma da Baratieri. (Consulta...)
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