La notizia arriva in Italia
La conferma ufficiale della disfatta di Adua giunse in Italia la mattina del 3 marzo 1896 attraverso un breve
dispaccio telegrafato da Massaua inviato dal vicegovernatore della colonia Eritrea Lamberti. La notizia lasciò attonito
il paese che, invece, attendeva, fiducioso della propria forza, una grande vittoria risolutiva sugli abissini
di Menelik.
In breve, in quasi tutte le città del Regno scoppiarono vivaci proteste che ben presto si trasformarono
in veri e propri tumulti.
Rivolte di piazza si ebbero a Torino, a Milano, a Firenze e a Napoli, dove al porto,
si voleva impedire la partenza di altre truppe per l'Africa. Durante le sommosse vennero occupate le stazioni
ferroviarie, divelte le traversine e i binari ferroviari per ostacolare l'invio di altri soldati in colonia,
assaltate prefetture, sedi di giornali filogovernativi o che si erano mostrati a favore dell'impresa coloniale.
A Roma, tra l'altro, fu presa di mira la casa di Francesco Crispi e in molte piazze delle città italiane si
sentì gridare, dai manifestanti, oramai quasi dei rivoluzionari, il famoso grido “viva Menelik” che sconvolse
tanti patrioti.
Con molta difficoltà e al costo di parecchie vittime l'esercito e i carabinieri riuscirono, intervenendo in
modo risoluto, ad arginare la rivolta e a riportare l'ordine.
La sconfitta di Adua rappresentò per l'Italia post unitaria un evento traumatico che causò il tracollo emotivo
del paese e mise in dubbio molte certezze acquisite: in questo contesto il governo dovette rassegnare le proprie
dimissioni ma il prezzo politico e umano più duro lo dovette pagare il presidente del consiglio Francesco Crispi
che dovette dimettersi e assistere impotente alla propria fine politica.
Il re fu sul punto di abdicare per risollevare le sorti della monarchia e il prestigio internazionale del paese
ricevette un duro colpo: nel contesto europeo solo la Germania non infierì contro l'Italia con i soliti stereotipi
di paese inetto e cialtrone.
Questo in Italia, e in Africa?
Il generale Baratieri, quando ancora i suoi soldati, senza ordini dal comando supremo, cercavano di sfuggire alla
furia degli abissini e della cavalleria Galla, fece perdere le proprie tracce dalla sera del 1° marzo fino alle ore
9.00 della mattina successiva. Durante il periodo di eclissamento, il governatore (formalmente ancora lo era) con
il fido Valenzano, lavorarono alla stesura del “telegramma della disfatta” dove il generale, in modo vergognoso
e non veritiero, dava la sua spiegazione della tragedia e, soprattutto, addossava gran parte delle colpe della
sconfitta agli ufficiali e ai soldati che “come pazzi gettavano fucili e munizioni” davanti al nemico dandosi
alla fuga senza ritegno.
Il telegramma fu inoltrato a Roma il giorno 3 marzo ma, contrariamente ai voti del comandante dell'esercito
coloniale, non impedì che il Re, su suggerimento del governo, emanasse un decreto di revoca nel quale si diceva
che “...il Tenente generale Oreste Baratieri cessa dalle funzioni di Governatore generale della colonia Eritrea”.
Questa breve frase in un documento di poche righe rappresentava la fine politica di Baratieri.
Il processo di Asmara
La fine della carriera militare dell'ex governatore giunse invece subito dopo: sempre a Roma si decise che l'alto
ufficiale sarebbe stato l'unico colpevole della disfatta africana. Bisognava far passare sotto silenzio le
colpe dei politici e della monarchia.
Compito questo di non difficile attuazione in quanto il generale aveva infranto il codice militare perché
“Per motivi inescrutabili deciso per il 1° marzo un attacco contro l'esercito nemico in condizioni tali da
rendere inevitabile come purtroppo avvenne la sconfitta delle truppe affidate al suo comando”. E di avere
“abbandonato il comando in capo dalle ore 12.30 del 1° marzo alle ore 9.00 del 3 marzo facendone così cessare
durante questo periodo ogni funzionamento” (atto di accusa del pubblico ministero militare al processo di
Asmara).
La mattina del 5 giugno iniziò proprio ad Asmara, in Eritrea, il processo militare contro il generale
Baratieri. La sede del giudizio era stata voluta in Africa dal governo per rendere più defilato lo svolgimento
del dibattimento e far arrivare in Italia le notizie ad esso relative con una forza emotiva attenuata.
La causa va ricercata sicuramente nella volontà di evitare il ripetersi di eventuali moti di piazza da
parte della popolazione e al fatto che in questo modo il processo sarebbe potuto correre su binari
prestabiliti senza destare particolari allarmi da parte dell'opinione pubblica.
Al termine del dibattimento il generale Baratieri non fu riconosciuto colpevole penalmente dei capi di
imputazione che pendevano (letteralmente) sulla sua testa: l'ufficiale, infatti, era addivenuto ad un
accordo (quanto tacito è da vedere) per il quale, in cambio della non colpevolezza (viste le accuse, rischiava
la fucilazione) egli non avrebbe esplicitato (e coinvolto) gli errori fatti dal governo e dalla corona
durante la condotta della guerra.
Finì tutto bene, allora, per l'ex governatore? No, perché, con un atto di dignità, i giudici militari, che
probabilmente erano a conoscenza dell'accordo e si erano prestati al gioco politico, nella sentenza inserirono
un passo che recitava: “...Il tribunale non può astenersi dal deplorare che il comando delle cose in una lotta
così diseguale, in circostanze così difficili fosse affidato ad un generale che si dimostrò tanto al di sotto
delle esigenze della situazione”.
La sanzione del tribunale era durissima sia nei confronti dell'imputato che
in questo modo vide la sua carriera militare stroncata per sempre perché ritenuto indegno, sia per i politici
che per i loro giochi di palazzo avevano messo a capo dell'avventura africana un personaggio non all'altezza
dei compiti che avrebbe dovuto affrontare.
Con il processo di Asmara e la fine politica e militare dell'ex
governatore si interruppe anche l'avventura abissina dell'Italia, che ricordiamo fu fortemente voluta da
Francesco Crispi. Con i negoziati che seguirono alla sconfitta di Adua il Regno d'Italia si vide costretto ad
abrogare il trattato di Uccialli e a rinunciare alle mire espansionistiche che aveva nei confronti dell'impero
di Menelik. La sconfitta di Adua ridimensionò, forse anche più del dovuto, il sogno della giovane nazione di
diventare una grande potenza politico-militare dello scacchiere europeo.
Bibliografia
Baratieri O., "Memorie d'Africa (1892-1896)", Torino, F.lli Bocca Ed, 1898.
Del Boca A., “Gli italiani in Africa orientale. I. Dall'Unità alla marcia su Roma", Oscar Storia,
Mondadori, 1998.
Pollera A., "La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi dove fu combattuta", Firenze,
Carpigiani e Zipoli, 1928.
Quirico D., “Adua. La battaglia che cambiò la storia d'Italia", Oscar Storia, Mondadori, 2005.
"Telegramma della disfatta"
inviato a Roma da Baratieri. (Consulta...)
Le prime notizie
della disfatta dal quotidiano "La Tribuna". (Consulta...)
Considerazioni de "La Tribuna"
sulla sconfitta di Adua. (Consulta...)
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