Le premesse
Per comodità metodologica, gli studiosi che si sono occupati di emigrazione italiana hanno suddiviso il “fenomeno”
in quattro grandi periodi principali preceduti da una fase iniziale, durante l’Ancien Régime, che ha visto gli
abitanti della penisola mettersi in movimento per lavoro (o per commercio) da soli o in piccoli gruppi di persone.
Ricerche fatte agli inizi dell’800 (1) dimostrarono come in Italia vi fosse una notevole mobilità interna nonostante
le divisioni politiche ed amministrative allora presenti. Pastori, braccianti e zappatori non esitarono a spostarsi
dalle terre di origine per recarsi in regioni in cui era pressante la richiesta di manodopera.
Al nord uno dei poli
di attrazione era formato dai territori occidentali della pianura Padana dove la coltivazione del riso attirava
braccianti e mondine dalle zone alpine ed appenniniche; nelle regioni del centro, la Maremma e la campagna romana
rappresentarono per lungo tempo la destinazione finale di manovali e pastori delle Marche e dell’Abruzzo mentre al
meridione, la zona della Capitanata (l’area di Foggia e parte della Puglia settentrionale) fu eletta residenza
invernale dei pastori transumanti. In Calabria i latifondi del Marchesato crotonese furono uno dei luoghi di lavoro
preferiti dai contadini pugliesi e lucani.
Nel corso della prima metà dell’800, la mobilità degli italiani verso i paesi europei fu piuttosto limitata. A partire
furono soprattutto gli artigiani impiegati nel settore edilizio, i figurinai, i bambini schiavizzati nelle vetrerie
d’oltralpe, musicisti ed gli artisti di strada.
A partire dalla metà del XIX secolo i flussi e le tradizioni migratorie iniziarono lentamente a cambiare. La
maturazione dello sviluppo industriale e i cambiamenti economici e sociali che seguirono diedero il via ad un vasto
movimento migratorio verso le nuove mete transoceaniche. La diaspora andò sempre più aumentando di intensità fino a
coinvolgere decine di milioni di persone di tutto il continente.
L’emigrazione italiana seguì il medesimo andamento generale anche se, come si è detto all’inizio, è stato possibile
suddividere il fenomeno in almeno quattro momenti caratterizzanti.
Il primo di tali periodi, quello che si potrebbe definire di scoperta e consolidamento, si fa giungere fino al 1900,
ovvero fino all’inizio del nuovo secolo e alla vigilia dell’entrata in vigore della nuova legge sull’emigrazione
legge n. 23 del 31 gennaio 1901).
In questo arco di tempo vennero registrati poco più di 5 milioni di espatri. La metà circa degli emigranti decise di
recarsi nei paesi transoceanici (circa il 51% del totale). La scelta di partire interessò in gran parte (81% delle
persone) uomini giovani di estrazione rurale che espatriarono senza essere seguiti da altri membri della propria
famiglia.
La “Grande emigrazione”
La seconda fase dell’emigrazione italiana (che di norma viene fatta iniziare dal 1901 per concludersi alla vigilia
della prima Guerra Mondiale) rappresentò il momento di maturità del fenomeno. Nel corso degli anni si assistette ad
un aumento considerevole delle partenze (che ammontarono a circa 9 milioni), con il picco registrato nel corso del
1913 con 870.000 espatri.
Nel corso del primo conflitto mondiale, e proprio per cause belliche, il numero degli emigranti diminuì in maniera
significativa. Gli espatri ripresero (anche se in maniera ridotta) nel primo dopoguerra.
Tra il 1901 e il 1914 continuarono a partire soprattutto giovani.
Provenivano, generalmente, dalle regioni dell’Italia
meridionale (furono circa il 70% del totale) e preferirono mete transoceaniche che, nel periodo in questione,
registrarono un sensibile aumento di sbarchi (+62%), con gli Stati Uniti che accolsero almeno la metà degli emigranti.
Tra le due guerre i flussi diminurono vistosamente: negli Stati Uniti cominciarono ad avere effetto le politiche
restrittive adottate per limitare l’emigrazione proveniente dall’Europa meridionale ed orientale (con l’approvazione
del Quota Act nel 1921), mentre in Italia il regime fascista assunse nei confronti dell’emigrazione un atteggiamento
di dissuasione volto a limitare le partenze.
Dopo la stasi del secondo conflitto mondiale il movimento migratorio riprese vigore tanto che fino agli anni ’80 del
secolo scorso sono partiti dall’Italia circa 8 milioni di persone. Le loro mete furono soprattutto i paesi europei
bisognosi di braccia da impiegare nei lavori di ricostruzione (gli emigranti italiani diretti in Europa furono 5,8
milioni contro i 2,5 milioni delle Americhe e dell’Oceania).
Per concludere, si può osservare che dal 1876, anno della prima rilevazione statistica del numero degli espatri
effettuata dal Regno d’Italia, fino agli anni ’80 del ventesimo secolo, periodo in cui l’Italia diviene a sua volta
meta di emigrazione, partirono circa 27 milioni di persone.
Questo numero, pur significativo non deve trarre in inganno in quanto non corrisponde alla quantità reale di persone
che hanno deciso di lavorare e vivere definitivamente nei paesi di accoglienza. Va, infatti, considerato che molti
emigranti sono partiti e tornati in Italia più volte e che quasi la metà di chi è andato a lavorare all’estero ha
deciso di tornare definitivamente nel proprio paese di origine. Fatte queste debite considerazioni è comunque
possibile affermare che coloro che sono rimasti all’estero in via definitiva ammontano a circa 12-14 milioni di
persone. Una curiosità per finire: se agli emigranti di prima generazione aggiungiamo anche i loro discendenti
avremmo almeno 60-70 milioni di oriundi italiani residenti all’estero. Non male per un paese di 35-40 milioni di
abitanti!
Bibliografia
Pizzorusso G., “I movimenti migratori in Italia in antico regime”, in: Bevilacqua P., De Clementi A., Franzina A. (a cura di), “Storia dell’emigrazione italiana. Partenze”, Donzelli Editore, Roma 2001.
Golini A., Amato F., “Uno sguardo a un secolo e mezzo di emigrazione italiana”, in: Bevilacqua P., De Clementi A., Franzina A. (a cura di), “Storia dell’emigrazione italiana. Partenze”, Donzelli Editore, Roma 2001.
La legislazione italiana in materia di emigrazione. (Leggi...)
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