L'emigrazione al femminile
Un aspetto del fenomeno migratorio che è stato a lungo sottovalutato dagli studiosi di storia contemporanea è
sicuramente costituito dal ruolo che hanno rivestito le donne durante la cosiddetta “Grande Emigrazione”.
Si era a
lungo pensato che la necessità di emigrare avesse riguardato quasi esclusivamente l’universo maschile con le donne
costrette a rimanere a casa ad aspettare. In realtà le cose non andarono proprio in questi termini. Le statistiche
sui flussi migratori dei primi del ‘900 ci dicono che su 14 milioni di espatri le donne rappresentarono una
percentuale che poteva variare dal 20 al 40 % delle partenze, a seconda delle fasi storiche e delle necessità
contingenti, ma per avere un panorama più adeguato alle realtà dell’emigrazione femminile, non si deve, tuttavia,
dimenticare che una grossa fetta di emigrazione maschile aveva un carattere temporaneo, con ripetuti periodi di
lavoro all’estero a cui seguivano lunghi rientri in patria.
Questo comportamento, se considerato nella giusta
prospettiva, fa comprendere come, in realtà, l’emigrazione femminile avesse una consistenza ben maggiore: una
donna che lasciava il proprio focolare spesso, molto spesso, lo faceva per raggiungere gli uomini al di la
dell’oceano (padri, mariti, fratelli, figli) e restare accanto a loro in maniera definitiva.
Oltre al ruolo nell’emigrazione attiva, le donne furono protagoniste, loro malgrado, anche quando rimasero al paese
ad aspettare. In questo caso il loro compito non fu affatto secondario: bisognava, in primo luogo mandare avanti,
da sole, la famiglia, la casa, la terra, occupazioni usuali per una donna, ma si aggiungeva a gravare ancor più,
l’amministrazione dei pochi beni rimasti in seguito all’acquisto del biglietto
del piroscafo e, soprattutto, la gestione del denaro delle rimesse.
L’improvvisa disponibilità economica, unita ai
nuovi ruoli sociali ereditati in seguito alla partenza degli uomini, consentì alle donne di acquisire un certo
livello di emancipazione impensabile in precedenza. Le mogli e le madri degli emigranti presero, infatti, a
frequentare botteghe, uffici postali, banche ed enti pubblici portando una ventata di novità nella ristretta
società rurale dell’epoca (e sovente, anche scandalo e maldicenze).
Le donne all'estero
Le donne che, invece, vissero in prima persona l’esperienza migratoria, spesso andarono incontro a una vita non
molto dissimile a quella che avevano lasciato in patria: la maggior parte di loro raggiunse i propri uomini per
continuare a rivestire il solito ruolo di madre, di moglie, di amante. In questo caso l’emancipazione fu più
difficile ma non impossibile. Fu ottenuta grazie al lavoro svolto al di fuori del nucleo familiare: le donne
che non si industriavano in casa per fabbricare fiori di carta, capi di abbigliamento o come “bordanti” (donne
che affittavano camere a connazionali), erano impegnate in fabbrica dove, durante turni massacranti, erano
sfruttate e private dei più elementari diritti sindacali.
Le donne meno “fortunate” dovettero affrontare gli aspetti peggiori del fenomeno migratorio: tra la fine
dell’ottocento e gli albori del nuovo secolo non era difficile imbattersi in cronache e resoconti giornalistici
che illustravano casi di sfruttamento minorile ai danni di “giovinette” impiegate come animali da fatica in filande
e opifici francesi, o in casi di vera e propria prostituzione, organizzata direttamente da connazionali che carpivano
la buona fede di decine e decine di giovani ragazze italiane per condurle “sulla via del vizio e della malavita”
(1).
Bibliografia
Bianchi B., “Lavoro ed emigrazione femminile”,
in: Bevilacqua P., De Clementi A., Franzina A. (a cura di), “Storia dell’emigrazione italiana. Partenze”, Donzelli Editore, Roma 2001.
Tirabassi M., “Italiane ed emigrate”, Altreitalie n.9, Torino 1993
La legislazione italiana in materia di emigrazione. (Leggi...)
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