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il quotidiano La Tribuna
In questa corrispondenza di Giuseppe Piazza del quotidiano "La Tribuna" si può notare come una notizia tutto sommato non rilevante - il cacciatorpedimiere italiano "Garibaldino" che entra nel porto di Tripoli per sbarcare un ufficiale incaricato di trattare la resa dei turchi - diventa un racconto epico e retorico ad uso dei lettori italiani.

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Gli italiani chiusi in Tripoli bloccata
(La Tribuna 1° ottobre 1911)

(da un nostro inviato speciale).
Tripoli, 22 [settembre], ore 15.

Il "Garibaldino" entra a Tripoli
Prima di mezzogiorno, una voce si propaga per la città, dalla parte della marina – “Una nave italiana viene a riva”.
Ci precipitiamo fuori, a vedere. Noncuranti, ormai del pericolo, - tant’è la gioia folle che ci esalta, corriamo alla banchina. E’ una nostra torpediniera; è un cacciatorpediniere italiano che fila a tutto vapore, verso il porto. Il cacciatorpediniere si avvicina evidentemente con lo scopo di sbarcare qualcuno. Esso deve recare a Tripoli l’ufficiale italiano incaricato di mettersi Regia Nave Garibaldino in comunicazione col reggente il Consolato d’Italia. Intuiamo che l’italia deve essere li li, - se non lo ha fatto di già – per dichiarare guerra all’Impero Ottomano… Ad ognuno di noi il sangue canta nelle vene un inno d’amore e di fede alla patria. Pochi minuti dopo scopriamo che il caccatorpediniere addossato a riva è “Garibaldino” – abbiamo finalmente appreso il nome fatidico e augurale della prima prora d’acciaio che abbia tagliato, in nome dell’Italia, le acque di questa rada. Il “Garibaldino” è entrato con magnifica manovra nel porto di Tripoli.
L’impressione destata tra i turchi e gli arabi è stata enorme. I pochi italiani presenti hanno agitato i berretti tra formidabili grida di “Viva l’Italia”. Noi giornalisti ci guardiamo l’un l’altro in volto. Abbiamo tutti gli occhi velati di lacrime. Intanto, dopo breve scambio di messaggi tra Comando del “Garibaldino” ed una cannoniera turca che è in porto, un ufficiale italiano sbarca dalla nave, ricevuto a terra dal viceconsole cav. Galli.
Tutti i Consolati di Tripoli intanto issano le bandiere. Mentre vi telegrafo l’ufficiale del “Garibaldino” entra al nostro consolato, dove scambia brevi parole col Console. Subito dopo quest’ultimo do ordine a tutti gli italiani di imbarcarsi sopra un piroscafo o di raccogliersi nella sede del Consolato. Quest’ultimo provvedimento, sembra preludere ad un’azione militare: forse un bombardamento. Noi ci chiudiamo nel consolato. Saremo, in tutti, un centinaio.

L'imbarco sull'"Adria
Gli ultimi italiani rimasti al consolato


Ore 15,25. Vi ho giò telegrafato l’arrivo in questo porto del cacciatorpediniere “Garibaldino”, coperto da bandiera bianca. Ho fatto anche in tempo ad accennare che, subito dopo il colloquio tra un ufficiale di quella silurante e il vice-console Galli, quest’ultimo aveva emanato disposizioni perché i pochi italiani ancora residenti a Tripoli, dopo l’esodo vertiginoso di questi ultimi giorni, si fossero decisi o a imbarcarsi sul piroscafo “Adria”, pronto ad ospitarli e ricondurli in patria, o si fossero raccolti nella sede del Consolato. Alcuni messi hanno quindi fatto rapidamente il giro dei quartieri ove sogliono dimorare i nostri connazionali, invitandoli a raccolta. Ma è stata una precauzione presso che superflua: fin dalle prime ore di stamane, infatti, quel centinaio e mezzo d’italiani che sono ancora qui, bivaccavano quasi tutti, tranquillamente, all’ombra protrettrice della palazzina del Consolato.
In ogni modo il richiamo è valso ad avvertire i pochissimi che ancora s’indugiavano nelle loro case o nelle vie, e che si sono affrettati, trascinando il loro bagaglio più indispensabile, a raggiungere il Consolato. Il cortile è ora pieno di agitazione. La maggioranza di queste centocinquanta persone è composta di maltesi. Predominano le donne e i bambini; ma nessuna costernazione è in essi. Sul volto di tutti si legge una fiducia calma. Poco fa il vice-console Galli è sceso fra essi e con cortesissime parole ha spiegato a tutti che gli avvenimenti incalzano, che non è possibile prevedere che cosa potrà accadere da un momento all’altro, che egli deve ad ogni costo salvaguardare la vita dei suoi “connazionali”. Li ha quindi pregati o di imbarcarsi subito sull’”Adria” o di rassegnarsi ad una cortese prigionia nel Consolato – prigionia che, per altro, credo durerà pochissime ore.
Tra i prigionieri,naturalmente, siamo anche noi. Il cav. Galli non ha nascosto che sarebbe stato meglio decidersi unanimamente per l’imbarco sill’”Adria” che – ha spiegato – in ogni caso sarà proyetto dalle navi italiane. E ciò per evitare poi, all’ultimo momento, nel caso che si decidesse di bombardare la città, affollamento sulle nostre navi da guerra, su una delle quali il console stesso con tutto il suo personale e, per forza di cose, anche noi dovremo finire per imbarcarci. Tutta la piccola folla, ringraziando il console delle sue gentili espressioni e del suo interessamento, si è decisa per l’imbarco sull’”Adria” e si è avviata tranquillamente, composta e serena, all’imbarcadero donde alcune lancie l’hanno rapidamente trasportata alla nave designata – un grosso piroscafo della Società Nazionale di servizi marittimi. Un gruppo molto esiguo, i cui componenti si contano sulle dita, ha voluto rimanere a qualunque costo al Consolato, e sono ora nostri compagni.

In attesa del destino!

La città è dunque popolata ora solamente da turchi e da arabi che, dopo le emozioni di stamane, dopo la sorpresa non certo edificante delle navi italiane accostatesi a meno di otto miglia dal porto, pare abbiano assunto ora un contegno grave quasi fatalistico. L’ordine in cittò è infatti perfettissimo; la vigilanza delle autorità raddoppia. Tripoli attende il suo destino. Noi intanto saliamo sulla terrazza del Consolato; e col cannocchiale cerchiamo di riconoscere quali delle nostre navi vigilino in lontananza. Sono quattro grosse e quattro piccole: distinguiamo nettamente la “Napoli” dalla sua sagoma aguzza, dai suoi tre alti fumaioli e dall’unico albero poppiero; le altre tre sembrano dello stesso tipo. Probabilmente saranno la “Garibaldi”, la “Varese” e la “Ferruccio”. Le piccole navi sono senza dubbio una squadriglia di cacciatorpediniere. In questo momento apprendo anche che altri pochi italiani sono rimasti a Tripoli: alcuni monaci francescani non hanno voluto a nessun costo abbandonare la città, mentre il Prefetto Apostolico e parecchi religiosi di altri ordini sono al sicuro sul piroscafo “Adria”.

Che cosa avverrà ora?

E' quanto ci domandiamo tutti. Certo a giudicare dalla tranquillità che sembra regnare a Tripoli, forze militari imponenti qui non ci devono essere. Damie informazioni risulta che le truppe regolari non oltrepassino un effettivo di cinque o seimila uomini. I forti di Tripoli, d’altra parte, non sono – come già sapete – gran cosa. Si tratta di forti di vecchio stampo,dotati con cannoni di modello antiquato e del tutto insufficienti contro navi anche mediocremente armate. Tanto è vero che, in questi ultimi tempi, la Turchia aveva riconosciuta la necessità di sostituirli. Sicché a conti fatti, se questa calma può essere giudicata solo apparente e gravida di minacce oscure, può, d’altronde, essere anche giudicata come la predisposizione a non opporre alcuna resistenza allo sbarco di contingenti militari italiani.
Il che nessuno di noi crede. Poiché sappiamo che il “Garibaldino” entrato in porto con bandiera bianca, aveva l’incarico di intimare la resa di Tripoli al vice-Governatore e al comandante della piazza forte.

E sappiamo che i turchi l’hanno respinta.

Giuseppe Piazza.

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