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il quotidiano La Tribuna
Nota de La Tribuna che si mostra molto informata sulla preparazione di una spedizione militare in Africa orientale. La spedizione ha il compito "ufficiale" di vendicare gli eccidi di due esploratori italiani (Giulietti e Bianchi). Il giornale, tuttavia, muove pesanti critiche ai modi di preparazione e ai fini politici e militari della stessa.

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Ad Assab
(La Tribuna 12 gennaio 1885)

Ad Assab.
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Checchè si dica e si sussurri riguardo ai moventi ed agli obbiettivi della spedizione africana – sia essa, come dovrebbe, il prodromo di una vasta e ben determinata azione politica, ovvero un espediente qualunque, un colpo di cannone tirato per disperdere la tromba che minaccia di travolgere la nave ministeriale – il nostro dovere di italiani e di pubblicisti ci obbliga ad occuparcene con tutto quell’ardore, con tutta quella coscienza che è forza mettere su ciò che tocca insieme la sicurezza, la dignità, l’avvenire della patria comune. Lo abbiamo detto fin dal primo giorno: dovunque sventola il vessillo tricolore, i petti italiani battono all’unisono: la sola preoccupazione è, e deve essere, quella di aiutare, di consigliare, occorrendo, di riparare.
Seguendo questo criterio, e ragionando, oggi, su quelli che sono gli scopi confessati della spedizione che sta per salpare da Napoli, noi ci troviamo davanti subito un dovere preciso. Ed è quello di raccomandare al governo, e a chi ha ideato e conduce la novella impresa, di non perdere di vista, per iscopi nebulosi e lontani, le condizioni locali, attuali del paese su cui le nostre truppe vanno a mettere piede. Non possiamo certo supporre che quelle condizioni siano poco o mal note a chi regge la pubblica cosa; abbiamo udito d’altra parte con vera soddisfazione che l’egregio Cecchi, rimandata ad altra epoca la progettata esplorazione del Congo, accompagnerà i nostri soldati sul territorio abissino; ma, ciò malgrado, le prove del passato e d’un passato non molto remoto, e i piani che si vanno discutendo in questi giorni ci fanno temere che si stia per commettere, appena giunti sul terreno africano, un errore dei più gravi e dei meno rimediabili.
Il nostro corpo di spedizione, si sostiene, si reca direttamente ad Assab, per tenerla sicura da future offese, per imporre alle tribù ed ai sovrani barbari circonvicini il rispetto del nome italiano e probabilmente l’espiazione della strage della spedizione Bianchi.
E come raggiungerà questi scopi – i quali – per ora – sarebbero i soli che gli sarebbero stati assegnati? Internandosi nel paese, raggiungendo i confini dello Stato degli Aussa, facendo o facendo fare, giustizia sommaria su una ventina di dankali, colpevoli o no, dell’eccidio dei nostri connazionali.

Or bene, se questo è realmente il piano delle prime nostre operazioni africane – noi vi ravvisiamo, chiari come in uno specchio, due gravissimi errori. Il primo e generale sarebbe quello di intraprendere una spedizione nell’interno senza accordi preventivi e ben determinati con taluni degli stati locali, svegliando le inimicizie e i sospetti di tutti. Il secondo quello di scegliere per teatro delle nostre dimostrazioni offensive, proprio quella regione nella quale non abbiamo finora, patito offese di sorta. Chi esamina anche superficialmente la posizione della nostra colonia rimpetto alle popolazioni indigene che la circondano, ed agli stati che le stanno vicini, può di leggeri [?] persuadersi della giustezza di questi appunti. Attorno ad Assab non vi sono Stati propriamente detti. Se vicine immediate sono le tribù Dankale padrone di un largo tratto di paese a nord e ad ovest – occupanti un tratto minore messi a sud-ovest e a sud, dove s’incontra a distanza relativamente breve, il dominio relativamente civile, dell’Anfari di Aussa, e quindi il più avanzato ed il più amico dei principati abissini, lo Scioà.
L’Abissinia propriamente detta, ossia il dominio di Re Giovanni, si trova più a nord e quindi separata dalle nostre colonie da un più ampio tratto di paese dankalo.
Giulietti primo, Bianchi dopo trovarono la morte in quest’ultima plaga, nel mentre tentavano appunto il passaggio dall’Abissinia ad Assab.
Per la via di sud-ovest invece – e cioè per l’Aussa e lo Scioa – è andato a fermarsi – e ancora oggi che scriviamo si trova – il conte Paolo Antonelli. Per questa stessa via e con lui, è passato il dottor Ragazzi, mandato a reggere la fattoria di Leh-Marefiah nello Scioà, eredità rispettata che lasciò all’Italia il compianto Antinori.
I documenti diplomatici pubblicati in occasione della strage di Bianchi e dei suoi compagni, dimostrano a fior di evidenza la esattezza di questa distinzione geografica e di questa disparità di condizioni etnografiche e politiche che intercade fra le due vie di nord-ovest e di sud-ovest, battute l’una dal povero Bianchi, l’altra dall’Antonelli e dai suoi compagni.

Come dunque e perché, se lo scopo e quello di vendicare i nostri connazionali e di procurare sicurezza al nostro possedimento, andremmo noi a metterci per la via relativamente amica e sicura? Non ci procureremmo [?] con ciò, e inutilmente, dei nuovi nemici? Non comprometteremmo noi la posizione, l’influenza, la sicurezza personale dei connazionali nostri, i quali, come l’Antonelli, hanno di loro iniziativa, a furia di sacrifici e di perseveranza stabilito una corrente di affari e di simpatia fra l’Italia e lo Scioà?
E se pur si ottenessero, senza pericolo nostro delle soddisfazioni – se l’Anfari facesse pigliare ed appiccare alcuni dei dankali che scorrazzano appresso ai suoi confini, non avremmo noi commesso e fatta commettere una flagrante ingiustizia, poiché sappiamo che la strage di Bianchi e quella di Giulietti sono avvenute assai lungi dal confine dell’Aussa?
Questi sono i dubbi che ci assalgono e che abbiamo voluto manifestare in seguito alle notizie che ci vanno ora propinando [?].
Dubbi i quali non perdono affatto d’importanza, se, come molti sostengono, questa parte delle nostre future operazioni africane, non fosse altro che l’inizio di molte maggiori imprese.
Neppure se avessimo di mira di impadronirci senz’altro di tutta quanta l’Africa orientale – dalla punta dei Somali, al paese nubiano – non ci parrebbe buona politica quella che ci portasse come […] in conflitto con gli Stati limitrofi ad Assab. Non è questione di armi e di pericoli di guerra.
Gli uomini competenti che abbiamo di questi giorni, ripetutamente interrogati, sono concordi nel dirci, che, come forza materiale, i mille o mille-duecento uomini che mandiamo, bastano a sottomettere e sconfiggere tutto ciò che volesse opporci una resistenza armata, Viceversa né mille uomini, né diecimila basterebbero senza sacrifici immensi e d’ogni genere a vincere il solo e grande nemico, la natura, allorquando ci inoltrassimo nelle sabbie africane, tra la diffidenza e l’ostilità di tutti gli Stati dell’interno.
Se il paese dei Dankali deve essere nostro – se la nostra bandiera deve sventolare sicura e rispettata sulle coste del Mar Rosso – procuriamo, per l’amor del cielo, di non pigliare le cose a rovescio, di non crearci davanti gli ostacoli. Gli italiani, quanti sono, daranno l'onore loro e il loro sangue per sostenere l'onor nazionale, e per provvedere all'avvenire della patria. Ma sarebbe delitto il domandar loro l'uno e l'altro per arrischiarli in imprese mal consigliate e male maturate.

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