Una notte tra le tombe della città scomparsa
Il disastro d'Avezzano descritto dal nostro inviato
(La Tribuna 15 gennaio 1915)
Avezzano, 14.
Da Roma a Tagliacozzo la linea ferroviaria sale. Si ha l'impressione di salire verso il culmine dell'orrore. L'angoscia
comincia a Tivoli, l'angoscia vaga di chi non sa e teme, di chi conosce il disastro per averlo sfiorato, ed immagina di essere
rimasto salvo per miracolo, mentre tutto è crollato intorno a lui. Il treno a Tivoli ha rotto faticosamente la folla che gremiva
la stazione e si stendeva sui binari, tutto intorno, come se la linea fosse il solo istmo che la riunisse al mondo e, sembrasse
più prudente accumularsi li, vicino ad una via di scampo che si considerava sicura. Si erano sparse voci più paurose: tutta
Avezzano crollata, i paesi vicini rasi al suolo, i novanta soldati di una caserma tutti morti eccetto uno; non un tetto per
ricoverare i feriti.
Squadre di volontari si erano già organizzate e si offrivano. Il mio treno, che portava con se una carrozza
di soccorso, una squadra sanitaria diretta dal comm. Baldi e composta dei dr. Grossi, Gritti e Diex e di un infermiere, l'on.
Sipari, un ispettore del Ministero dell'interno comm. Di Domenico, molti ingegneri delle ferrovie , e gran numero di abruzzesi
inquieti, proseguiva come poteva. Un prete a Roviano mi ha fatto vedere su in alto la torre del palazzo del principe di
Brancaccio con un angolo stroncato, come il rudere di un combattimento.
A Roviano, ad Arsoli, a Riofreddo, a Pereto non c'erano
che case lesionate, soffitti aperti, chiese danneggiate. Nessuna vittima umana. Ma erano già passati i primi feriti con un
diretto che non aveva saputo dire la sua provenienza: uno dei suoi vagoni era pieno di ferrovieri scampati al crollo della
stazione di Avezzano. Feriti o sconvolti, accesi in volto di febbre e tremanti ancora sotto un sole tiepido, quasi caldo, che
entrava dai finestrini spalancati. Non parlavano che a monosillabi, e rispondevano alle domanda con cenni del capo: dicevano
sempre di si, accreditando inconsciamente i dubbi più gravi: “se è crollata la stazione di Avezzano – osservava un ingegnere
delle Ferrovie che era sul treno – così solida com'era, il resto della città non può aver resistito”. Ad una stazione poco prima
di Tagliacozzo qualcuno ci ha gridato sulla linea: “Dodicimila morti ad Avezzano. Non andateci. La città non c'è più”.
A Tagliacozzo
A Tagliacozzo ho dovuto arrendermi all'evidenza. Siamo arrivati quasi a notte a questa stazione. C'era molta gente ad attendere
il treno: l'ansia di Tivoli si ripeteva qui muta. Non eravamo più sull'orlo del disastro; il disastro cominciava li.
“Sono crollate tre case. Settantatre sono lesionate. Quattro morti e un centinaio di feriti” ci dice un signore finalmente
preciso, “Ma nessuno – soggiunge – osa rientrare e tutti accampano all'aperto”. Sale qui sul treno un maresciallo dei
carabinieri, Giovanni Paradisi, con tre militi: va ad Avezzano per una specie di istinto, senza ordini, perché gli hanno detto
che tutti i carabinieri di quella stazione sono morti.
Sa che intorno a Tagliacozzo vi sono molti morti nelle frazioni: a Poggio
Filippo, a San Donato, a Gallo. Antrosano è distrutta. Tutte le casette sulle coste sono crollate. Ha ricevuto alle nove, portato
da un uomo che non poteva parlare, un telegramma del maresciallo di Magliano, Pedrival, da trasmettere al comando dei carabinieri:
ha ancora l'originale e me lo mostra. Scriveva il maresciallo Pedrival sopra un pezzo di carta che aveva impronte di sangue:
“Pregasi disporre per soccorsi medici truppa a causa disastro terremoto. Tutte le case crollate moltissimi morti compresi 5
carabinieri. Io ferito vivo per miracolo, messo spedito Avezzano tornato dicendo non avere trovato autorità perché pure colà
verificatosi terremoto”.
Vedo per un momento la figura insanguinata di questo soldato, ritta tra le rovine: odo un vecchio singhiozzare al mio fianco.
Annotta. Nel crepuscolo si vedono sfilare le rovine dei caselli, e in mezzo a grandi pantani lucidi, residui dell'inondazione
del Liri, casette sventrate. La stazione di Scurcola non c'è più: ma il capostazione che non ha lasciato il servizio mi spiega
come fu gettato dal terremoto fra i binari, e, come ha potuto, contuso ma vivo, salvare tutti i suoi illesi sotto un soffitto
che aveva miracolosamente – è l'avverbio che ripetono gli scampati – fatto capanna. Di fianco alle rovine informi della stazione
è acceso un fuoco, e una baracca si inizia già. Qualche decina di persone vuol salire a tutti i costi sul treno per raggiungere
Sulmona o da Avezzano discendere a Roma: si racconta che nel caffè di Stefano Garzia vi sono stati tre morti e parecchi feriti
tra cui un negoziante romano venuto a comprar mele.
E' morta la moglie di un certo Nocedelli, e sono morti i suoi bimbi. Nella
casa di Andrea De Angelis sono sepolti il figlio e la moglie. E' scomparso Francesco Corazza. Cappelle e Magliano sono distrutte:
il dottor Di Giacomo medico condotto del luogo, ha curato tutti ed è poi andato a Cappelle perché il suo collega di li aveva una
spalla spezzata. Si raccolgono i feriti: la vettura di soccorso entra in funzione. Più alto del ritmo del treno, disuguale perché
la linea è malandata, si sente a tratti uno strillo lacerante.
A pochi metri da Scurcola ci fermiamo ancora. E' notte. Non c'è nessuno sulla linea, ma il segnale di arresto è acceso e guarda
con il suo monocolo rosso. Ci sentiamo vegliati anche nel disastro, noi, i vivi, i sani, fra quelle tombe non ancora chiuse, e
poco dopo sbuca dall'ombra una lampada fumosa e poi un uomo, con due donne dietro che reggono non sappiamo bene se bimbi o cenci.
E' un redivivo che ci protegge: il capo squadra Mingarelli che ha li poco distante i cadaveri del padre e della madre.
“Possiamo andarcene a Tagliacozzo?" Chiede una delle donne.
"No", risponde una voce dal treno. "C'è una trave che sporge dalla garitta ed urta le ruote del treno. Toglietelo via".
"Abbiamo provato, è impossibile. Siamo stanche".
"Ci penso io", dice il Mingarelli. Resteremo.
A Cappelle
E mentre il treno s'avvia, torna alla garitta che ha ancora il tetto di zinco intatto sui calcinacci dei muri sfasciati. Mezzo
chilometro più oltre, qualcuno ci dice: Ecco i cadaveri. E vediamo sotto coltri bianche, col volto coperto, allineati sul
muricciolo della linea, due vecchi che sembrano dormire all'aperto: questa è la moglie; quello il marito... il figlio lavora, con
l'automatismo del dovere, poco distante: salva delle esistenze, ore che le sue più care sono estinte. Si va avanti a passo d'uomo
perché la linea è avvallata, ma finalmente si arriva a Cappelle. Anche qui la famiglia del capostazione si è salvata: una sua
cognata Elisa Graziosi è soltanto leggermente ferita.
Ma un manovale è morto, un deviatore è ferito, e in un gruppo che attende
il treno si sente uno smarrimento quasi folle. Magliano, Cappelle... nomi. Dove sono più. Quanti abitanti aveva Cappelle? Chiede
qualcuno al dott. Di Pietra, che ha, come abbiamo detto, una spalla rotta, ma che incuora dal suo giaciglio presso un gran fuoco,
i feriti che lo attorniano.
- "Quanti abitanti?"
- "Mille, forse".
- "Quanti restano?"
- "Guardi qui intorno. Sono tutti qui".
Vi sono intorno poche decine di feriti e pochi uomini validi, col volto rigato di sangue. Uno ha un livido rotondo enorme intorno
all'occhio destro, come un raggio in cui la pupilla si dilati sanguinando. Ad un altro il sangue raggrumato ha fatto una maschera
di spasimo. Presso un carro, ruminano due grandi bovi, le sole bestie salvate dal disastro, e il fuoco fa rosseggiare le loro
groppe pacate. Il fuoco, il carro, i volti lacerati intorno alla fiamma compongono il quadro di un esodo primitivo, quando i
nomadi si aprivano la strada combattendo. Avanti.
Il treno è ormai pieno di gente fuggita nel primo sgomento da Avezzano e che
vuol tornare a vedere, incuorata dalla nostra presenza. Ripetono monotonamente che la città non c'è più. Non hanno riconosciuto
la loro terra, voltandosi a guardarla nella fuga. C'era all'orizzonte, fra una nebbia bianca foltissima che saliva come un fumo,
il profilo di un paesaggio sconosciuto, un miraggio apocalittico.
Pochi riuscivano a spiegare come era stata la scossa:
“si ballava. Siamo caduti. Tutto girava. Pareva che il coperchio di una pentola bollisse sotto i nostri piedi”.
Erano saliti a
Cappelle, nel nostro treno, una ventina di giovanotti di Carsoli, la prima squadra di soccorso che fosse giunta ad Avezzano. Il
comm. Di Domenico, che aveva fatto salire nel treno un'altra squadra più numerosa ad Arsoli prega anche questa di tornare in giù.
E i giovanotti acconsentono: sono bianchi di polvere, non hanno mangiato dal mattino. Qualcuno diede da bere: pare che anche
l'acqua si scomparsa ad Avezzano.
Questi generosi di Carsoli ci danno le prime notizie autentiche: hanno salvato un centinaio di
persone, sanno che l'arciprete è scampato con un gruppo di fedeli, mentre la chiesa ne ha sepolti crollando qualche centinaio;
che un altro prete che serviva messa si è ricoverato a tempo sotto un arco mentre l'altare si rovesciava sul chierichetto che
aveva ancora in mano le sacre ampolle; che scene strazianti si erano avute, ma soprattutto per la disperazione dell'impotenza:
i pochi superstiti, soli, non riuscivano a trarre dalle loro tombe, i cari che erano vivi ancora. E non c'erano soccorsi. Una
donna s'era gettata bocconi sulla sua casa ed era rimasta li, col viso confitto sopra uno spigolo liberatore. Un'altra, ad un
crocicchio, urlava come una belva e si gettava su tutti i passanti per trascinarli dove un suo bimbo gemeva da una profondità.
La morte di Avezzano
Ecco. Avezzano. Nessuno. La stazione è deserta. Vediamo, prima che la gente scenda, due o tre ombre guizzare nelle luci dei
finestrini; vediamo, al sereno delle stelle brillanti come sono sempre sopra le altitudini, la stazione tutta piegata da un
lato, divenuta un groviglio di ferraglie e di travi, con una stanza al primo piano spalancata come se vi fosse stato un sipario
e il muro di destra ancora in piedi, ma il nome della stazione mutilato. No, non era più Avezzano. Delle case sul piazzale della
stazione non si vede nemmeno un vago profilo. Dove siamo giunti? “Per carità, per carità, urla qualcuno tra le lagrime gettandosi
nel primo gruppo che scende. Mia moglie è ancora viva: venite a salvarla! Ho raspato sinora con le mani – vedete sanguinano – ma
ci vuole un piccone. Per carità... Più delle parole implorano i singhiozzi.
E' l'applicato al movimento Padovani, sposo da due
mesi, venuto da pochi giorni ad Avezzano. In un attimo gli ispettori delle ferrovie, comm. Talenti e ing. Fergola giunti col
treno gli formano una squadra armata di torcie e di vanghe: sono, eccettuato il comm. Di Domenico che rappresenta il Ministero
degli interni, ma che non ha che quattro carabinieri a cui dare ordini e le squadre che ha fatto provvidenzialmente salire nel
treno, sono la sola organizzazione sul luogo che funzioni. La amministrazione delle Ferrovie dello Stato ha avuto qui – sembra –
maggiori vittime che a Reggio e a Messina, ma giunge prima a soccorrerle. E' alla sua iniziativa che si deve l'inoltro della
vettura di soccorso che ha medicato un centinaio di feriti in poche ore. Un centinaio perché i salvatori non erano che sessanta:
la squadra di Arsoli organizzata dal sindaco cav. Nardoni e da un giovane prete erculeo. Don Costantini, che aveva portato con sé
anche tre monache: una decina di manovali delle Ferrovie, quattro carabinieri... il treno non era arrivato da dieci minuti che
già le squadre erano al lavoro.
Frugando nella necropoli
M'ero aggregato a quella che seguiva il povero Padovani. La speranza di salvare la moglie folgorava nei suoi nervi come una
follia. Con una torcia in mano egli precedeva i salvatori saltellando come se frenasse l'impeto di correre. Ma egli stesso, il
povero Padovani, che era guidato dall'amore, l'istinto più chiaroveggente, non si orientava più. Avezzano era distante un mezzo
chilometro dalla stazione e dove cominciava non si sa più. Le case a fianco del viale si sono appiattate o rovesciate tra gli
alberi o gettate nei campi limacciosi. Un omnibus, una di quelle sgangherate preistoriche vetture che fanno il servizio fra i
piccoli comuni, è diventata una casa e troviamo li un'indicazione vaga: a destra, e un gesto, meno chiaro ancora. Adagio: vi
sono dei feriti sepolti sotto il fieno. “Girate, avverte qualcuno, c'è un morto”.
Come sono caduti, scaraventati fuori dalle
loro stanze, o dal tepore dei loro letti, i morti sono li, fra i sassi, supini come se dormissero ancora, o raggomitolati come
certi cadaveri che le colate di gesso riformano nel lapillo di Pompei. Proprio in mezzo alla strada c'è il corpicino sanguinoso
di un bimbo: la carità di qualche passante gli ha composto un lettino di fieno, ma il vento ha scomposto la povera coltre, e
quella piccola cosa su cui ieri una madre rideva di gioia, è uno spaventevole simulacro della Morte. A un crocicchio tre uomini
sembrano veramente dormire sopra una porta divelta: sono pallidi, bisogna che non dormano così sotto il gelo. Li tocchiamo per
svegliarli. Sono già freddi. Qualcuno li ha trovati e li ha messi li, perché morissero col volto alle stelle. Non c'è nessuno.
La città è deserta. Sono scappati tutti.
Ma non ne abbiamo incontrati per via, non ve ne sono alla stazione. Sono morti tutti.
Uno del luogo ci spiega. Erano ancora tutti in casa. Faceva freddo e si dormiva volentieri. Del resto chi era in istrada è
stato sepolto sotto le macerie che hanno colmato le strade. Avezzano vista dall'alto non è più un'isola di tetti rossi solcata
da fossi profondi: è un altipiano petroso, sterile, da cui si rizzano ancora tronchi ignudi. Chi piange? C'è qualcuno che piange,
che chiama sommessamente. Ad ogni passo è una voce nuova. Chiamano di sottoterra. Una ragazza ci sbarra la strada supplicando
per i suoi quattordici cari che possono essere ancora vivi. Ascoltiamo. Non si odono voci vicine. La ragazza chiama a nome.
Nessuno risponde. La squadra prosegue.
Visioni macabre
Passiamo ad un quadrivio. Qui si incrociavano, mi dicono, via Vezia, via XX Settembre, Corso Umberto e piazza Torlonia. Si
capisce confusamente di essere allo sbocco di parecchie strade, ma non si riconosce più un aspetto di casa. Dal marciapiede
tondo, un giovinetto assicura che siamo davanti alla sede del Banco di Roma. Una dozzina di feriti fa cerchio intorno ad un
fuoco: ci chiedono, senza muoversi perché non possono muoversi, se abbiamo delle barelle. Aspettano da tanto tempo ed hanno
fatto a tanta gente la stessa domanda, che le voci sembrano convinte di chiedere invano. Nessuno insiste, quando passiamo
oltre trascinati dai richiami di Padovani.
Un cane ronza intorno ad un materasso da cui una voce ancora imperiosa lo allontana.
Mi chino e riconosco fra i cenci ed il sangue raggrumato il bel volto quattrocentesco del conte Filippo Resta. E' ferito; ha la
febbre; la fedeltà del suo cane è l'unico affetto che gli sia rimasto. Sono morti nove di casa sua e i due servitori: egli stesso
è stato salvato da tre ore, e non vorrebbe essere vivo. Non è più il conte Resta; è li con gli altri feriti un corpo dolorante
coperto di cenci luridi. Nessuno ha pensato a portarlo via; se non fossimo passati sarebbe restato li nel quadrivio con gli
altri a cui la sventura l'aveva eguagliato, con gli altri che gli davano del tu ed a cui egli parlava con amore.
“Sentite – ci dice – quanti gemiti!"...
Il quadrivio, verso il centro del quale si sono versate le macerie, è come un vaso di cui le pareti s'incidano d'incrinature.
Sono sospiri, voci basse, richiami. C'è una folla ancora viva, li intorno. Lasciamo proseguire il Padovani con due terrazzieri
e ci fermiamo li. Vi sono con noi dei giovani di Arsoli, il maresciallo Paradisi, i carabinieri Chialastri, Mastrucci, Di
Clemente. Una gara pietosa comincia fra il piccolo gruppo.
Un borghese, calatosi in una buca, con un piede sospeso sopra un
vuoto profondo in cui franano dei massi ad ogni movimento, riesce a scoprire e a tirar su una giovinetta di 16 anni, certa
Matilde Vitale, che da dodici ore agonizzava intatta, con la testa all'ingiù. Da un primo piano era stata gettata giù nel
secondo, trattenuta per le vesti fra le travi del soffitto.
I calcinacci le si erano serrati intorno e la soffocavano ma la
reggevano insieme. Due altri borghesi riescono a liberare completamente dalle macerie di una piccola fotografia un vecchio
che, sebbene ferito alla gambe, aveva potuto scavarsi un a fatica un cunicolo fino alla strada. Si lavora male, di fianco a
muri pericolanti, che nel bagliore delle torcie a vento sembrano davvero vacillare, su calcinacci e tegole che trascinano giù
o che cadono in vuoti profondi sospendendo il respiro ai salvatori che temono di offendere chi aspetta da loro la vita. Si
lavora in catena, passandosi i calcinacci uno ad uno, e il primo è quello che salva davvero, ma che deve vincere l'orrore di
sentire sotto le dita un braccio rotto, o il caldo del sangue o il gelo di un cadavere. Ad un certo punto si sente un bambino
chiamare da un sottotetto che si è schiacciato precipitando: muoverne la porta vuole dire rischiare di trascinarsi addosso il
tetto e un muro adiacente.
La squadra esita perché chi la dirige l'ha messa in guardia, ma il carabiniere De Clemente si caccia
avanti; spinge la porta ed entra nel vano tra un rovinio di calcinacci e travi. Quanta gente si è salvata cosi? Molti erano li
quasi a fiore, ma impotenti a muoversi per una feritao per uno shock nervoso o per principio di asfissia, e se i soccorsi
fossero giunti subito non sarebbero mosti d'esaurimento o di gelo. Gelava.
Le pozzanghere crepitavano sotto i piedi e i fuochi
dei bivacchi mettevano dei bagliori rossi dietro le mura squarciate. Qua e là fumavano dei piccoli incendi, si udivano schioccar
colpi come di cartucce gettate nel fuoco. Mentre scendiamo verso la stazione con i feriti, incrociamo un prete, Domenico D'Amico,
venuto da Scurcola a piedi. Prega, ma vorrebbe agire.
Troviamo un impiegato del Ministero delle poste, certo Bologna, che cerca
i genitori adottivi ma sente che non li ha più. Suo zio era il direttore dell'ufficio postale distrutto; tre soli agenti si sono
salvati in un corridoio: Archimede Mattei, Domenico Chiarelli, Florindo D'Angeli. Troviamo un soldato con un cappello chiaro da
borghese: ci racconta che della nona compagnia del 13° fanteria che aveva settanta uomini, appena una trentina si sono salvati.
Il capitano è morto, il sottotenente Desanctis è ferito, il sottotenente Ferrautti è vivo ma malconcio e pure ha salvato tanta
gente... Dei carabinieri ne è restato uno ma con un occhio così gonfio che non vede più nemmeno dall'altro. Incontro alla
stazione il collega prof. Nardelli, consigliere comunale di Avezzano. E' il solo che si sia salvato dell'amministrazione,
perché era a Tivoli. Anche il sindaco Silvio Bonanni è scomparso. Morto il sottoprefetto Bonaventura De Pertis; morto il
delegato, morto il professore di pedagogia della scuola normale Eugenio Imperatori, morti il capitano dei carabinieri Perelli,
l'ispettore del movimento Pilo Rossi, e la moglie del capo stazione. Di qualunque persona si chiede, rispondono: morto!
Intorno ad Avezzano
Alla stazione, verso mezzanotte giunge, seguendo la linea ferroviaria, qualche scampato dai paesi oltre Avezzano: il capo-squadra
dei telegrafi Gallese, il cuoco del seminario di Pescina. Raccontano che a Pescina, all'una, la terra tremava ancora. Era
crollato tutto il paese alto; era lesionata ma integra in apparenza la parte bassa. Il vescovo mons. Bagnoli non era nella sede,
ma erano morti tre seminaristi, morti il sindaco Panfilo Scocchi, il tenente dei carabinieri, l'economo del seminario, il parroco
della cattedrale, un prete identificato come Don Ciccillo e cento altri.
La scossa era stata preceduta da folate intense di
ardore, seguite da un vento violento: chi era all'aperto si era sentito sollevare come sopra un'onda per due o tre metri, ed era
poi precipitato, cadendo stordito. Le strade di campagna si erano qua e là abbassate: più di un metro era andata giù la strada
nuova. Da Collarmele a Tagliacozzo tutte le case erano crollate; Cerchio, Celano, Paterno di Celano danneggiatissime. San
Benedetto dei Marsi raso: cinquanta morti a Castell'Alfeno e cento feriti, tre morti a Cappadocia, tutte le case devastate a
Cappadocia e a Verrecchie.
Un bimbo in una stufa
Torno in paese. Ne scende la squadra di Carsoli, diretta dall'on. Sipari e dall'ing. Munzi, bianchi di calce e rigati di sudore.
Hanno salvato un momento prima un bimbo di dieci anni, che era finito, non si sa come, in una stufa, ma che sembrava abbastanza
presente di spirito da dirigere i salvatori. Invece un frenatore, estratto poco prima senza lesioni apparenti, era spirato mentre
lo esaminavano nella vettura di soccorso dove i medici delle Ferrovie facevano le prime medicazioni con cura non meno ammirevole
della rapidità. Trovo il povero Padovani: doveva essersi illuso quando aveva creduto di udire la voce della moglie che non si è
potuta trovare. Gli diciamo di andarsene a Roma, ma siccome per dargli una estrema consolazione aggiungiamo che sua moglie
potrebbe essere soltanto svenuta, senza risponderci egli torna indietro, con il suo curioso passo a piccoli salti, che ci sembra
il passo di un demente. Dietro alle rovine si allargano i rossori dell'incendio.
Grosse nuvole di fumo si distendono sulle
macerie da cui esala già – o ci sembra che esali – odor di putredine. Le voci si moltiplicano intorno a noi. Siamo ormai isolati,
in cerca di qualcuno che possa soccorrere o segnalare, ma da tutti gli angoli ci chiamano. Sono strilli imminenti, urli dal
chiuso che sembrano ululi di belve, pianti monocordi che si spengono a poco a poco flebili bisbigli. Si intuisce che dei dialoghi
angosciosi, monosillabici, si intrecciano da maceria a maceria sotto i rottami, come se un piccolo mondo effimero che sarà spento
tra qualche ora se i soccorsi non giungeranno a tempo, si sia formato così. Le voci si direbbero lontane lontane, ma la nostra
immediata esperienza ci insegna che i sepolti sono li, a pochi metri da noi, e che più il coperchio della loro tomba è grave,
più il richiamo si ode smorzato. Qualche voce è così flebile che ci pare un'illusione. Ripassando dopo un momento non l'udiamo
più, o l'udiamo più in alta, più disperata, invocare forse per l'ultima volta la nostra pietà disperata d'impotenza. Vorremmo
avere cento braccia per sollevare i coperchi di tutti gli avelli suggellati intorno a noi, e il dolore di non poterci servire
della nostra vita per darla agli altri è forse profondo come lo spasimo di che sente la vita fuggire.
Tullio Giordana.
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