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Giornale d'Italia 1902
Lungo articolo di costume di Amy A. Bernardy, corrispondente dall'America del Giornale d'Italia. Nel testo si affronta l'aspetto curioso (e caricaturale) delle storpiature e degli adattamenti di termini inglesi, italianizzati. Tuttavia, si coglie, in chi scrive, un velo di snobismo.

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A lato: scene di vita nella "Piccola Italia" di New York (inizi del '900).

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La "Piccola Italia" di Boston e la sua lingua
(Il Giornale d'Italia 1° dicembre 1903)

Boston, ottobre.

"Da vendere o affittare, building in buona posizione con locali adatti per grosseria e barra. Bisinis garantito. Rendite Cheap. Rivolgersi alla firma P. R. & Co. ...Street, Carri lungo il block".
Per naturale associazione di idee contrarie, la prima volta che in terra americana lessi un consimile squarcio d'eloquenza, mi venne in mente la Crusca. Poiché, nel suo genere, è un testo di lingua anche questo, della lingua che si parla correntemente dai ben parlanti, si stampa quotidianamente (e non solo sulle quarte pagine) in certi fogli; e si può leggere anche quotidianemente da chi ne abbia voglia, nel quartiere italiano di ogni grande città americana. In questo caso particolare l'epigrafe che trascrivo letteralmente, significa che la ditta P. R. & Co. è incaricata della vendita o affitto di un fabbricato adatto a scopi commerciali, impianto di magazzini e mescita di liquori, lungo il quale corre il tram, e che il prezzo Venditori di strada dell'affitto è mite. Il nome della strada, che ometto per ovvie ragioni, dice chiaramente che la città è Boston; Boston, di cui l'estremità settentrionale o North End, occupata quasi esclusivmente da immigrati, contiene quella che gli iniziati (giornalisti e "policemen") conoscono con il nome di "little Italy", piccola Italia. Per arrivare alle iperboree latidunini della piccola Italia di Boston bisogna, ahimé, traversare, dopo l'aristocratica città alta, la città commerciale, la città israelita, la città cinese. Poiché ogni città americana, anche la più piccola, non è che un'aggregazione di città varie e discordi. E' il tramite per il quale si giunge al quartiere italiano dice a chi è pratico di cose americane, che gli italiani occupano a Boston, come del resto in tutte le città dell'Unione, uno dei quartieri più miserabili e screditati. Lo spostamento della città elegante dal nord, dov'era nell'epoca coloniale, verso l'ovest e il sud-ovest, dove si trova ora, ha finito coll'abbandonare in balia degli immigrati tutta l'antica città coloniale, cosicchè le poche case storiche di Boston, fra cui quella di Beniamino Franklin e di Paul Revere e alcune delle chiese più antiche si trovano nella "little Italy". Dove è passata ieri la storia dimora oggi l'Italia a Boston. Povero vanto davvero, quando si veda come dimora. E' una vita smorta e triste. Triste per il rigore del clima e per la miseria della popolazione, miseria qualche volta voluta, è vero, e spesso refrattaria alle suggestioni della civiltà americana che la incalza da presso e tende a modificarla in qualche parte, ma pur sempre miseria. Vita spostata e ibrida, che risente già troppo delle inivitabili influenze locali per conservarsi caratteristicamente italiana; e che dall'altro lato, troppo italiana ancora per le consuetudini americane, delle caratteristiche nazionali non conserva che le peggiori, e di quelle americane non acquista certo le più stimabili. Come la vita; così la lingua, la quale, per chi non si trovi a constatare da presso i formidabili problemi che gravano sulla "little Italy" è di questo ibridismo l'indice migliore e più evidente.

L'immigrante che arriva in America sente subito il bisogno di assimilarsi una certa quantità di parole inglesi colle quali sbrigare le sue faccende quotidiane: ed ecco che si trova di fronte a difficoltà di suono e di pronunzia, a superare le quali Condominio abitato da italiani non possono aiutarlo nè la grammatica nè l'ortografia che generalmente non conosce nemmeno in relazione alla sua lingua nativa. Ascolta e imita, e a forza di andare orecchiando e imitando, riesce a trovarsi non troppo a disagio in un linguaggio che suona tanto più lontano dall'inglese delle persone colte, in quanto gli conviene raccoglierlo dalla bocca del "poliseman" irlandese o del "marchettoman" ("marketman", fornitore), il quale a sua volta è probabilmente è un immigrato tedesco. E non importa se in bocca italiana (e per lo più meridionale), sotto un'influenza evidentemente germanica, il "goodmorning" inglese diventa il "gudmorgani"; o se lo "shut up" suona "scialappa" pur significando "tacete"; o se "ten cents a dozen" (dieci soldi la dozzina) si attenua in "tene sense dosine": il suono è press'a poco quello e il "policeman" e il "marketman" che sono, si può dire, i soli stranieri con cui l'immigrante comunica, intendono per istinto: altri, se mai, intenderà per consuetudine. E così l'immigrante si fa capire dall'indigeno, tanto meglio in quanto anche questi, innocente di quei principii ortografici che intralciano talvolta la comprensione ai più colti, si affida puramente all'impressione fonetica della parola. Ora, che un immigrante italiano, per un fenomeno che si potrebe chiamare di osmosi linguistica, imbeva, diciamo così, di elemento italiano la sostanza del volgare inglese, e parli un inglese rivestito di forme italiane, questo è, se non grammaticalmente lodevole, certo spiegabile logicamente.
Ma quello che è notevole e strano è il fenomeno opposto, dirò così, di endosmosi, che accompagna l'assimilazione della lingua indigena. A forza di sentir dire "speak English" e "talk English", l'immigrante dimentica il corrispondente italiano "parlare" e vi sostituisce le forme foneticamente affini "spiccare" e "toccare", noncurante del loro proprio significato italiano, che esse perdono, entrando con significato prettamente inglese a far parte di un patrimonio linguistico che si rinnova e si arricchisce di continuo, e potrebbe propriamente chiamarsi "italiano d'oltre Atlantico". Al travisamento di significato s'accompagna naturalmente la costruzione straniera della frase, e il "Parla inglese" d'Italia si traduce in volgare transatlantico: "Può lei spiccare inglese?" con analogia evidente al "can you speak English?" Inoltre, a quel modo che i Latini da "orare" fecero "orater", l'immigrante da "spiccare" deriva logicamente "spiccatore"; e il suo "spiccatore" se è un "mitingaio" (frequentatore di meetings) seguirà con interesse ciò che avviene alla "setaiola" ("city-hall", palazzo municipale). Se poi vi meravigliate e non intendete, vi sentirete probabilmente domandare: "Vostra mater?" E' italiano o latino? No. "Vostra mater" corrisponde a "what's the matter?" (come mai?).

Quindi è la lingua del "si" diventa la lingua del "iesse", poichè, strano a dirsi, le parole "si" e "va bene" sono le prime a sparire dal vocabolario dell'immigrante, che le sostituisce con "iesse" (yes) e "oraitte" (all right). Nel patrimonio di questa strana lingua entrano iniltre il "bisinis" ("business", affari) col diminutivo "bisnessuccio" (piccolo commercio), "stoppare" per "fermare", da "stop"; "pondo" e "pondirella" per "libbra", "pound". Momenti di vita a Little Italy Non parlo dei nomi dei luoghi, Richmond scritto e pronunciato "Ricciomomdo"; Charlestown "Ciarliston"; Chelsea, "Celisino"; delle "Street" (strade) che diventano "Stretti", di "bar" che fa "barra"; "car", "carra", cioé vagoni; "costumi" per "Costumers", clienti. D'uso generaleanche "bordare" (to board), per "stare a pensione". Spalare la neve in inglese si dice "shovel"; e siccome il suono più affine a questo è l'italiano "sciabola", si sente dire che nella tal città cinquecento italiani hanno "sciabolato" le strade durante l'inverno. E mentre i padri "sciabolano", i ragazzi probabilmente "sciainano", cioé lustrano scarpe (to shine) a cinque "sensi" (da cents, soldi) ogni "sciainatura", se pure non sono "loffaretti" (da loafer, fannullone) che non abbiano voglia di lavorare. Tutto questo vocabolario subisce aumenti e diminuzioni e gradazioni (loffaribo, loffaretto, loffarone, loffaraccio), si declina, si coniuga e si concorda come se fosse il volgare aulico del padre Dante, sicché ne risulta una vera lingua, italiana d'aspetto, inglese d'etimologia: la lingua del "iesse". Parrebbe un gergo fatto apposta, se non fosse la prova dolorosa della disgregazione della lingua del "si". La quale, e in questo forse sta la ragione intima del fenomeno, resta per l'immigrante come il segno dell'umiliazione, come il ricordo di giorni di miseria e di sacrificio sofferti nella patria antica, mentre l'inglese è la lingua del guadagno, della civiltà, del progresso nella patria nuova. Ogni Francesco che sbarca ad Ellis Island o a Charlestown dopo un mese è diventato Frank; i Giuseppe si trasformano in altrettanti Joe, e poco più tardi, in un inglese che magari ricorda ancora troppo da vicino l'accento di Caserta o di Campobasso per aver diritto alla cittadinanza, vi risponderanno a faccia tosta: "No understand Eyetalian. Me American citizen". Troppo poco americani, purtroppo in certi dettagli, come quello di vivere sorditamenteoltre ogni dire o dell'usare le vasche da bagno che sono in ogni casa americana, come un deposito di immondizie e un magazzino di rifiuti; troppo poco italiani, ahimé, di coscenza e di dignità civile.

Sta intanto il fatto che l'immigrante, dopo pochi anni e talvolta dopo pochi mesidi soggiorno, se non parla ancora inglese, certo non parla più l'italiano;che questa specie di "lingua franca" è d'uso così comune e d'invadenza così imperiosa che trascina "volentes nolentes" tutti quanti, onde i "prominenti" od ottimatidella colonia di New York prendono anch'essi, come l'ultimo analfabeta, il "carro" per le "quattordici" o le "ventidue strade" (14^ o 22^ strada), che al console, al prete, al banchiere conviene, non dirò usare, ma intendere la lingua del "iesse" per capire e farsi capire; che per la stessa ragione l'adoperano continuamente, se nn proprio nell'articolo di fondo, certo nella cronaca, negli avvisi correnti e nella pubblicità i vari giornali delle colonie italiane, stampati in italiano ma redatti sul tipo americano; senza di che l'imigrante semi-americanizzato non intenderebbe. E la conclusione pratica e immediata di tutto questo è, che fra italiano del "iesse" e italiano del "si", i figli degli immigranti che crescono, tra i figli degli indigeni, finiscono col parlare e capire l'inglese, e nient'altro che l'inglese. Che è quello, del resto, che importa agli americani.

Amy A. Bernardy.

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